TESTI TRATTI DA "BALLATE NERE"

Diego Riccobene (Alba, 1981) si laurea in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino; è docente presso la Scuola Secondaria.
Alcuni suoi scritti sono stati pubblicati su antologie, webzine e riviste, quali Il Menabò, Critica Impura, Laboratori di poesia, Inverso, Versante Ripido, Neutopia, Suite Italiana.
Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, 2021).
È bene precisare che il contenuto delle liriche non è adatto alla maggioranza dei lettori. O meglio: per quanto sia consigliabile il travaglio del negativo ad ogni esistente, l’apostolato del nero di cui si fa portatore Riccobene non si distingue dalla strana sensazione di euforia che si potrebbe provare sull’orlo dell’abisso, o quel sentimento ineffabile e straniante che si sussume essere fondamentale alla contemplazione dell’esistenza e, soprattutto, della morte che ne è corollario. [...]
(Der totentanz, ovvero della danza macabra di Carlo Ragliani)
***
Rifiuto di recidere la chiostra
che avvinse le tue mani nel rabesco
lapideo degli inverni,
il filatterio aggrovigliato d’ossa
per lodi a quelle voluttà scomposte
in canutiglia gialla e bianco perla.
Un respice del sonno, un catalettico
bugiardo, quel ch’io sono quando mormora
la stimmung verso il groppo
di cieli brancolanti, nel rovaio
in lustra prefettizia grigio piombo
che indosso come un sogno, con vergogna.
***
Del despota accuso il disordine,
l’asfittica prosa sacrale,
l’accento che inquina i primordi
del lessico e annusa il pudore.
Del mentore ossequio la tregua
tra ingenua speranza e ripulsa,
ma temo che l’ombra mi segua,
mi freddi una stretta convulsa.
***
Il martire ringhiava,
il sacro rigirìo si risolse
bevendo la lisciva a brevi sorsi
da quella delittuosa colocasia;
fu quando udii le voci dagli azzurri
che a valle mi stordivano
svillaneggiando lungo i miei ventricoli
fino al richiamo della procellaria.
E sono solo un ladro
a dirla tutta, adiaforo in latenza
che amò saziarsi di sembianza e croste
rimasticate in dies irae lunghi
come le pieghe d’una scolopendra,
un vaniloquio tale
da impaludarmi in ecfrasi e ghirlande,
intossicanti tare di pervinca.
