POESIE INEDITE

Gabriele De Simone è nato a Napoli il 27 gennaio 1996. Laureando in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, tra il 2018 e il 2020 è tra i redattori prima de Il Simposio della Poesia, poi de L’Elzeviro – Rivista Letteraria. Nel 2019 è premiato miglior giovane nell’ambito del Concorso Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia”. I suoi versi appaiono inoltre su blog e riviste come Inverso – Giornale di Poesia, Atelier, Transiti Poetici, e tradotti in spagnolo per Centro Cultural Tina Modotti.
ORA CHE NON HO NIENTE
Ora che non ho niente
mi tocca inventare tutto;
ripristinare il mio nulla
vivo come una placenta
dove portarmi in cultura,
gestire un ovvio decadimento
come un organo da trapianto –
palpita lungo il tragitto;
mi riparo in un grembo
di rattoppi, intesso le carni
tra loro pescando da una memoria – Sai,
anche il corpo ha una sua memoria,
e come marchio a fuoco vi s'imprime l'amore
e un'altra mandria di cose.
Chiedesti agli uomini:
dove vanno tutte quelle che dimentichiamo?
Vedi, proprio queste sono
le uniche cose che vengono e non vanno più
da nessuna parte; si annidano, arredano
il nostro sangue e tutto dentro
scavano tane, per salvarsi
dal tradirsi, per non farsi
mai parola.
***
SPORE
Costretto a un gioco di spore –
il moto elastico tra nascere e non morire –
l'occhio sfida, e perde, inerte
un dilemma d'intestini e solo guarda
la discordia che ristagna le giornate,
non ne resta che acquitrino –
da raccontarti niente:
è la stessa marcia di sciopero
del mio corpo a calpestarlo.
Non sono affatto teso,
è che mi sembra di svanire.
***
CORSETTO BLU
C'è un posto sotto al castello
dove la mia anima si ricongiunge,
ricordi? Ti ho fatto sedere
sul tetto, abbiamo guardato, in tempo,
le stelle, prima di arrenderci al freddo
o alla voglia. Ti sei chiusa in camera. Ora
la lingua tua batte sul palato e affila spade.
Un dilemma di polsi che sfuggono alla presa
via via che stringe. Velocemente, ti cambi.
Il legno della porta è vecchio e tradisce
la tua voce il bianco, quella mano di bianco
che gioca a separarci quando rincasiamo. Nasce
ogni liturgia da un canto:
la tua parola è sola e appartiene alla notte,
la notte che ci vide vinti, la notte
che guarisce nel sangue la nevrosi; noi
beviamo della stessa sete. La piaga
è ovunque e tu non vedi. Il letto
notte dopo notte, lui, si divide, noi
coliamo a picco nudi e sciagurati. Non badi, tu,
a questo oceano di simboli: in questa dolina, noi
– vorrei fondermi a te – siamo solo vicini. Tu
non badi a questo. Abbracciami forte, stasera,
perché domani me ne andrò
e tu non conosci che addii.
Dio invidia questa abat-jour
e il quarto giorno inventa il sole.
***
ICARO
Partire in ritardo, guidare piano.
Affondarti nella schiena per un'ultima volta la mano.
Sbirciare le gambe nella distrazione quando
vai e torni dal bagno una sfilata per me. Come se
non ci fosse accaduto mai nulla e dobbiamo uscire e
tu giri per casa in mutande e non scegli un vestito.
Ma se era un sogno allora è finito, se era un gioco
è stato un azzardo, perché il banco ha vinto.
Temevi fosse un salto nel vuoto, non è stato:
è stato volare, cadere, schiantarsi.
Gli uccelli fuori cantano un'alba che dura da ore.
Le serrande si riavvolgono, i motori si innescano.
Ho pianto a stento poi ho cercato su internet
da quale occhio cade la prima lacrima,
sterile affronto alla saggezza dei corpi,
sommesse manifestazioni di disperato dolore. Oggi,
avrei voluto – senza giri di parole – sapere dirti
che non fui sola fuga, non sola malattia,
che non fosti salvagente né solo orfanotrofio:
Io ti ho amato come gli alberi amano il sereno.
Ho questo cuore nuovo ma ancora non ho pace: non è bastato
che io mi sia curato, perdonato, guarito, tutto quanto
non mi è bastato perché noi eravamo
io la pioggia e tu la terra
e adesso siamo nulla e sono poeta
solo a scrivere di te e salvo poche altre volte
e pure quelle rare volte è perché tu sei ovunque.