CONTEST POETICO "PENNINO D'ORO 2021"

Salvatore De Chiara (Napoli, 1985) è regista, sceneggiatore e scrittore. Laureato in Linguaggi Multimediali e Informatica Umanistica (laurea triennale) e in Imprenditoria e Creatività per Cinema,
Teatro e Televisione, (laurea magistrale, con Ugo Gregoretti in qualità di relatore), ha realizzato numerosi cortometraggi, videoclip e diversi progetti audiovisivi.
Nel corso del tempo ha avuto esperienze da saggista cinematografico e collaboratore universitario con docenti quali lo stesso Gregoretti, Valerio Caprara e Giuseppe Cozzolino.
Dal 2012 è iscritto all'Albo dei Giornalisti Pubblicisti della regione Campania.
Nel 2017 ha realizzato ‘Na Wave, documentario di lungometraggio sul panorama musicale emergente e underground partenopeo. Nello stesso anno vengono pubblicati Pandemonium (Lettere Animate Editore), suo romanzo d’esordio, e un suo racconto, Il tempo di Giustino, inserito nella raccolta L’altalena (ALT! Edizioni). Nel 2018 esordisce anche come autore teatrale di spettacoli di rievocazione storica.
Bibliografia
2017 – Pandemonium (romanzo), Lettere Animate Editore
2017 – Il tempo di Giustino (racconto), in L’altalena, ALT! – Edizioni
2011 – C’era una volta il Vietnam…, Corman e la fantascienza, Corman e gli altri film di (saggi), in Schegge di cinema, a cura di Valerio Caprara e Giuseppe Cozzolino, L’Orientale Editrice.
Trilogia della notte
Petrolio
Vicoli bui seguono la sera,
tra perdizione, pensiero e persistenza,
viaggi inopportuni e indesiderati.
Lì toccano nervi con parole di petrolio nero,
affascinante, caldo.
Antro del piacere diventa la mente,
allo scoccare dell’ora d’equilibrio
che tende le mani ad un giorno spento e ad uno entrante.
Come spia infame prepara la strada,
impedisce il riposo e la tenua quiete,
droga leggera sono i suoi tentacoli.
Di buio e dolcezza
ricopre le vesta orgogliose,
maschera il suono sognante d’incanto
nel manto pregiato di ricordi ed emozioni
che come velo sottile nasconde il pianto.
È la trasgressione che si fa verbo,
vellutato richiamo di pelle rovente e membra bagnate,
come un angolo di strada, teatro di sensualità blanda,
come polpastrelli ruvidi di odore d’altrui umore.
Momenti e storie di gloria autorevole,
strappati alla collezione egoistica e primitiva,
pronti ad essere mostrate d’encomio,
lustrati d’orgoglio per la natura giuliva.
Il quadrato di gioia creata dalle dita inesperte,
altro non è che il gioco del diletto
di chi non ha diversa passione
che fuggire dal timido incontro
del coraggio con la realtà. E la fuga che vogliamo,
la melassa più fetida per l’ego nascosto
nella convinzione di crederci, doloranti d’impeto,
animali informi senza alcun posto.
***
Lago nero
Passo pedante è la regola,
l’ordinaria amministrazione dei pensieri
lasciati indietro, per spazio al nuovo,
all’immacolato manto di colore torbido.
Se poi fermo lì ad essiccare,
si fa largo nelle intenzioni funeste
mirato a patti e alleanze malgradite
con le riflessioni entranti da sicure foreste.
Le orme dell’infante, con sguardo caprino
carico di innocente insolenza,
per battere del proprio petto
il diritto del volgare gioco
di gesta e mani arroganti,
eppure necessarie alla fervida formazione
di chi dallo stato solitario vuol fuggire
e rendersi invulnerabile a qualsiasi separazione.
Così come l’adolescente fanciullo
macchiato di cenere e primavera
si guarda in volto per darsi un tono,
un qual monolitico vento da farsi rispettare
con gli occhi dell’uomo adulto
ad attingere come inesauribile fonte.
L’esperienza è vaga nel non voler crescere,
comunque inevitabile è con lui il tessere ponte.
Non c’è viaggio nostalgico,
non tronfio e incapace di muoversi
tra paludi passate e il lago nero
insorto ogni qualvolta l’ambizione si esprime.
Raccogli con i palmi l’impalpabile scuro
che un quarto di quadrante offre e patisce,
non è concesso svago alcuno, la fuga non pervenuta,
così come la lacrima di buio ricordo la guancia ferisce.
***
Polvere
Cinque giri di lancetta corta
tirano la coda con polso e tatto crudele,
che la nostalgia non ha giaciglio
nelle intenzioni salde e speranzose.
La gola è nido di nodi,
groviglio di fumo e colpi ingialliti.
Rigirarsi è regola violata e senza vista,
la speranza di riposo degli steli appassiti.
Spaventa la tensione di orbite in carico
per quella mente che respira a fatica.
Il sentirsi ceramica vuota,
con fili d’acqua evaporati
a far polvere come amare esperienze
di delusioni, afflati e detratta illusione.
È questo che attende i buoni?
È ciò di cui si indegna la diritta ragione.
Pulita la tempra, precisa è la lucidità
di un sole che scardina dalle prime ore
che un giorno non può provare se non
spingendo carne e vapore, il vitale connubio.
Stavolta è senza dialogo l’incontro impervio,
perché vigliacco è il risvolto, ho perso, di nuovo.
Sveglio è il corpo, non il desiderio
per cui la fiera è rimessa nel covo,
laddove l’ardente futuro è miele
di api d’argento e favi d’ottone.
Con piedi solerti nuove ore guardano
e non piegarsi è regola e dittatura.
Eppur con lunghi sguardi va via, lontano,
sentori acri di felicità proibita,
perché negano tutti di toccare frutto,
senza che alcuno neghi la natura ambita.